Carissime
Annunziatine,
nel Calendario Liturgico ci sono due feste molto “particolari”: la Conversione di san Paolo il 25 gennaio e la Cattedra di san Pietro il 22 febbraio. Di nessun altro santo nel Calendario Romano (la Madre di Dio va considerata in un altro modo) ci sono memorie liturgiche simili.
Senz’altro ciò attesta l’importanza di
questi due grandi apostoli. Pietro e Paolo sono le due colonne della Chiesa di
Roma e della Chiesa universale. Una antica tradizione voleva che nelle
cattedrali le prime due colonne, quelle più vicine all’altare, fossero chiamate
con i nomi dei due Apostoli.
Le due celebrazioni liturgiche sono
così originali che si festeggiano in modo specifico ed indipendente. Pur non
avendo esse una relazione diretta fra loro, tuttavia, è interessante riflettere
sulle due celebrazioni insieme, appunto come due colonne su cui si appoggia un
arco della Chiesa di Roma.
Non basta avere uno solo di questi
elementi, bisogna averli tutte e due. Come “paolini”, cioè figli di don
Alberione, ci dovrebbe essere ben chiaro, siamo insieme fondati su Pietro e su
Paolo.
La conversione a Cristo, come per san
Paolo, deve essere radicale e deve riguardare tutta la vita. La saldezza nella
fede in Cristo deve essere piena e deve essere la stessa degli apostoli, che
con Pietro insieme proclamano l’unica fede, certamente nella carità (Pietro è
primo nella carità) ma anche nella verità (Paolo ricorda che trasmette quanto
anche lui ha ricevuto, cfr. 1Cor 15,1-5).
La conversione dell’intera vita
La conversione di san Paolo non è un
evento “fondante” del Cristianesimo. Ma ci richiama un elemento fondamentale
della vita cristiana che è quello di vivere in continua conversione o, se
preferiamo, l’espressione del Primo Maestro di incarnare l’esortazione «Abbiate
il dolore dei peccati» (AD 152).
Tuttavia la conversione di san Paolo,
come ci insegna san Luca nel libro degli Atti, ha segnato la storia della
Chiesa in modo decisivo. Luca la racconta tre volte negli Atti degli Apostoli,
cosa decisamente eccezionale.
Eppure non è l’unico ad essere
“convertito” da Gesù, la chiamata di Levi la precede. Non è l’unico discepolo o
discepola che si converte e cambia radicalmente la vita: pensiamo a santa Maria
Maddalena... E ci saranno sempre cristiani con svariati tipi di “conversione”.
Lo stesso Fondatore si riconosceva come peccatore convertito.
Non si tratta di ricordare chi le ha
fatte più grosse... poiché la vera conversione fa “dimenticare” i peccati (i
nostri ed anche quelli degli altri). La conversione è un atteggiamento che apre
al futuro e non ricade nel passato.
Il dolore per i peccati deve
insegnarci l’umiltà riguardo a noi stessi e alle nostre forze, non meno che la
confidenza nella infinita misericordia di Dio Padre. È importante guardare, non
i peccati o le fragilità, ma piuttosto la potenza misericordiosa di Gesù: «Ti
basta la mia grazia» (cfr. 2Cor 12,8).
La festa della Conversione di san
Paolo sempre alimenta la speranza che la Grazia è più grande di ogni peccato.
Per questo ci è sempre utile l’esame di coscienza: abbiamo bisogno di
“conversione”, ma ancor di più abbiamo bisogno di grazia.
Facciamo nostra la riflessione del
Fondatore: «“Il dolore dei peccati” significa un abituale riconoscimento dei
nostri peccati, dei difetti, insufficienze. Distinguere ciò che è di Dio da
quello che è nostro: a Dio l’onore, a noi il disprezzo» (Alberione, AD 158).
Saldi sulla roccia che è Cristo
Il 22 febbraio la celebrazione
liturgica della Cattedra di san Pietro ci ricorda un’altra riflessione: non
basta odiare il male e amare il bene, è altrettanto necessario stare saldi
nella verità.
Ci è necessaria la grazia non solo per
la vita morale, ma anche per la verità. Senza la saldezza della fede non ci è
garantita la fermezza nella carità e neppure nella speranza.
Questa celebrazione in onore di san
Pietro ricorda a noi che la navicella della Chiesa è salda per la presenza di
Cristo, non per l’abilità dei pescatori o per la robustezza della barca.
Nella sua storia la Chiesa ha fatto
viva esperienza che sono saldi in Cristo quelli che rimangono uniti a Pietro,
poiché il Maestro ha promesso «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la
mia Chiesa...» (Mt 16,16-20).
Per questo don Alberione (e con lui
una schiera di santi e fondatori come s. Francesco s. Domenico, s. Ignazio,
ecc.) ha voluto che nel nostro apostolato rimanessimo sempre uniti al magistero
del Papa, cioè della Chiesa.
Satana sempre cerca di dividere la
comunione (cioè la carità tra fratelli e con Dio), ma anche la fede (cioè dalla
verità che ci fa una sola Chiesa nella proclamazione dell’unica fede in
Cristo). Infine il diavolo cerca la divisione anche dalla speranza (perché chi
resta solo si scoprirà più debole, anche nell’intelligenza e, scoraggiato,
smetterà di combattere o sarà confuso nel farlo).
La festa della Cattedra di san Pietro,
specie per noi paolini, deve essere un’occasione per rinsaldarci nell’unità
della Chiesa e nell’unità con Pietro e i suoi successori.
Sono quanto mai attuali le parole che pronunciò san Paolo VI ricordando santa Caterina di Siena: «Ha amato la Chiesa nella sua realtà che, come sappiamo, ha un duplice aspetto: uno mistico, spirituale, invisibile, quello essenziale e fuso con Cristo Redentore glorioso, il quale non cessa di effondere il suo Sangue (chi ha parlato tanto del Sangue di Cristo, quanto Caterina?), sul mondo attraverso la sua Chiesa; l’altro umano, storico, istituzionale, concreto, ma non mai disgiunto da quello divino. [...] S. Caterina non nasconde i falli degli uomini di Chiesa, ma mentre inveisce contro tanta decadenza, più la considera un motivo e un bisogno di amare di più. [...] Questo è l’amore di Caterina: la Chiesa gerarchica è il ministero indispensabile per la salvezza del mondo» (Paolo VI, Udienza, 30.04.1969).
Don Gino
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